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Posts Tagged ‘Laghetto’

Di solito si pensa che le streghe abbiano popolato montagne impervie e valli sperdute, che i roghi abbiano sinistramente illuminato villaggi lontani, isolati, in cui gli inquisitori riuscirono a far leva sul “naturale senso” di superstizione di popolazioni arretrate, primitive, pronte a credere al demonio e alle favole del sabba.
In realtà le maliarde, ministri di un culto antico, retaggio dell’arcaica religione “delle pietre, delle fonti e delle piante”, più volte condannata dalla chiesa, che tentò di estirparla con ogni mezzo, dalle persecuzioni alla cooptazione di molte cerimonie alla ridicolizzazione, abitavano anche nelle città. Certo: in ambito urbano il controllo era più efficace, più puntuale; a differenza che sulle Alpi, c’era un prete per ogni parrocchia; i predicatori potevano esercitare comodamente la professione; il braccio secolare era sempre pronto ad intervenire, su richiesta.
Ma c’erano zone dove raramente sbirri e prelati si arrischiavano ad addentrarsi: ricordiamo che a Milano il Rebecchino, il quartiere medioevale fitto di vicoli e vicoletti, passaggi bui, portici oscuri, sotterranei, fu abbattuto solo nella seconda metà dell’Ottocento: non potendo “risanarlo” (cioè non riuscendo a cacciar via la massa di miserabili che lo abitava) un parente del sindaco comprò il terreno sottocosto, per poi rivenderlo al Comune nel giro di pochi mesi, ovviamente a prezzi iperbolici. Fu minato: in macerie finirono portici del Quattrocento affrescati, come il Coperto dei Figini, bifore, trifore, stracci, gatti e (si suppone) anche qualche poveraccio. La vicenda finì in scandalo, non per gli sfollati, ma per i giri di soldi illegali. Vecchia abitudine.
Da quei posti, dicevo, i rappresentanti della legge, dell’ordine e della morale si tenevano bene alla larga; d’altra parte, difficilmente avrebbero potuto entrare: il tasso di affollamento delle case di ringhiera nelle strade dei disgraziati, fino agli anni Venti, dava un indice di affollamento di undici residenti per stanza: ovviamente, durante il giorno, la gente stava per strada. La notte, chissà.

Altro luogo ameno, in cui le streghe sono presumibilmente sopravvissute fino a poco tempo fa, erano gli spazi attorno alle mura della città: in quelle muraglie, generazione dopo generazione, i più marginali avevano scavato dei buchi in cui si riparavano. Anche da là dovettero sbatterli fuori con la forza quando abbatterono i bastioni per farci la circonvallazione interna.
Da quelle tane la mattina uscivano decine e decine di donne, che andavano in giro per ore, per raccattare qualcosa da mangiare, da portare ai figli, rimasti a razzolare per strada in attesa del ritorno delle madri. Spesso dovevano aspettare fino a sera.
Questo l’ambiente in cui si muovono le nostre fattucchiere, a Milano.
Certo, in una metropoli come la capitale lombarda, in cui il ritmo della storia è stato serrato, pieno di rivoluzioni, guerre, invasioni, rivolte, cambiamenti, la memoria popolare sulle nostre signore ha mantenuto poco: anche perché la propaganda ecclesiastica è stata efficacissima. Carlo Borromeo promise agli emissari della Santa Inquisizione che, se l’avessero lasciato fare da solo, avrebbe lavorato meglio di loro. Aveva ragione.
Ma qualcosa è rimasto, che ci permette di seguire un filo rosso che dai processi ci porta al ricordo di riti sciamanici, legati alla natura e alla dea madre, signora della terra e delle bestie, del sesso e del piacere, del sangue e della morte.

“Salute a te, signora Oriente”. “State bene, brava gente”: questo il saluto che si scambiavano maestra e discepola quando si trovavano per il sabba. La riunione, chiamata anche, guarda caso!, gioco, a cui si recavano le streghe nelle notti tra il giovedì ed il venerdì era sempre presieduta da una Signora trattata con il massimo rispetto, soprannominata, a seconda dei casi, Diana, Oriente, Erodiade. Quelle streghe che, a Milano, si chiamavano Sibilla e Pierina di Brivio. La loro sentenza di morte fu letta nel 1390 dal podestà in persona, dal balconcino della Loggia degli Osii.
Sibilla e Pierina non sono fondatrici di nuove, eretiche dottrine; più semplicemente, sono maghe che seguono una religione antichissima: quella della Grande Madre della natura e degli esseri viventi, diffusa ovunque in Europa, dalla Siberia ai Pirenei. Sono tra le prime streghe milanesi che la storia ricordi. Al processo confesseranno eventi straordinari: ogni settimana partecipavano a feste presiedute dalla misteriosa dama, che istruiva gli intervenuti e scioglieva qualunque dubbio le sottoponessero: malattie, furti, malefici.
A quelle feste partecipavano anche gli animali: “Nella medesima compagnia si recano anche a due a due animali d’ogni specie tranne le volpi e gli asini perché questi portano la croce e se uno soltanto mancasse, tutto il mondo ne sarebbe distrutto e di uomini ne vanno che sono vivi e che sono morti; tra questi ultimi quelli che morirono impiccati o decapitati hanno una gran vergogna e non osano alzare la testa stando nella compagnia… La suddetta Oriente istruisce i membri della sua compagnia su qualsiasi problema le pongano e predice le cose future e quelle nascoste; insegna a voi della compagnia i poteri delle erbe e, dai segni che le presentate, vi fa vedere tutte le cose che chiedete riguardo malattie, furti o malefizi. E così vi insegna a fare e trovate che ogni cosa da lei mostrata è verità”. Elemento centrale di quel culto atavico è il banchetto: prima dell’ideologia del sacrificio ad ogni costo, religione e divertimento dovevano mescolarsi, perché la gioia richiamava le energie positive che riuscivano ad attuare lo scambio tra le componenti umane e quelle divine.
Diana, Oriente ed Erodiade girano per le case dei ricchi, dove ricevono da mangiare e da bere, e quando trovano dimore bene spazzate, pulite e ordinate le benedicono. “In quella compagnia si uccidono animali e se ne mangiano le carni, gli ossi però vengono riposti nella pelle e la Signora con una bacchetta che tiene in mano con un pomo, percuote la pelle degli animali uccisi e questi subito risorgono. Se certo ossi mancano, al loro posto ci mettono leni di sambuco”.
Siamo di fronte ad una delle più caratteristiche forme di stregoneria: basti pensare alla conoscenza e al dominio sulle proprietà delle erbe, grave colpa che toglieva la possibilità ai medici maschi “studiati” di esercitare la professione. O alla pratica della divinazione, che veniva legalmente effettuata dagli astrologhi di corte, ma proibita alle incantatrici della bassa plebe.
Durante i conviti, o giochi, gli animali venivano uccisi e poi resuscitavano, per non turbare l’eterno equilibrio naturale. Diana era la dea protettrice della caccia e della foresta, vergine cacciatrice che provvedeva e vigilava affinché i cicli non fossero mai interrotti. La resurrezione dalle ossa è un mito ed una credenza che attraversa l’intera Eurasia, e arriva fino in Siberia, ed è stata magistralmente documentata da Carlo Ginzburg.
Sibilla e Pierina si radunavano attorno ad uno spirito femminile, buono, che gli antichi popoli veneravano sotto il nome di Ecate, come dea della magia, con riti strani e segreti, oppure di Erodiade, la figlia del re Erode, spesso confusa, nel Medioevo, con la madre. Erodiade-Salomè è colei che chiede la testa di Giovanni Battista, primo cristiano battezzato: benché ignoranti di teologia, quelle povere fattucchiere avevano individuato bene da che parte stava il nemico.
Malgrado questo rudimentale principio di autocoscienza, che si esprime più che altro in maniera velata e simbolica, non si fa nessuna esplicita rinuncia a Dio, né si reca offesa alle credenze cristiane. La religiosità di cui abbiamo perso la memoria era tollerante. Anzi, sincretica: in presenza di nuovi dei, questi venivano inglobati all’interno della cosmogonia esistente, ed entravano a far parte della vecchia aristocrazia divina, a cui bisognava rendere il dovuto onore. Tanto, Dio, che poi era composto dagli spiriti della natura, era lo stesso dappertutto; anche se gli ignoranti lo chiamavano con nomi diversi.
Il diavolo non fa che una timida comparsa, limitata ad una relazione privata di Pierina, non accettata solennemente dalla setta, la quale, anzi, è completamente indipendente dal demonio. “Ogni volta che aveva intenzione di andare al gioco, chiamava lo spirito Lucifello il quale veniva sempre da lei in forma d’uomo e parlava con lei e l’istruiva su qualsiasi cosa l’interrogasse”. Pierina frequenta la compagnia di Diana, Oriente ed Erodiade da quando aveva sedici anni; ma decide di diventare l’amica di Belzebù soltanto a trent’anni. Quando si trovano in presenza della Signora, però, per rispetto, non pronunciano il nome di Dio. Meglio evitare interferenze che potrebbero trasformarsi in conflitti di competenze: è Beltrame di Cernuscullo, il frate inquisitore, che parla (o meglio che scrive):
“Dicesti poi che voi di questa compagnia non nominate Dio quando vi trovate insieme né quando decidete di recarvi alle riunioni. Dicesto poi che la Signora non vuole che facciate sapere in giro niente di queste cose… Interrogata se lei Pierina si fosse data al demonio risponde affermativamente e che in premio o segno di sé gli diede un po’ di sangue della propria mano destra, un cucchiaio circa e con questo sangue il demonio scrisse che Pierina si dava interamente a lui. Interrogata sull’epoca in cui ciò avvenne risponde che fu quando aveva trent’anni, ma al gioco lei aveva cominciato ad andare che aveva sedici anni circa, quando sua zia Anexina ce la mandò al suo posto, non potendo altrimenti morire”.
Questa è una certificazione chiara di come avveniva il passaggio di potere da strega a strega: se non aveva un’erede degna, la vecchia sacerdotessa non poteva morire: doveva cercarla fino a quando l’avrebbe trovata. Solo in quel momento avrebbe potuto lasciarsi andare, e terminare la sua vita con un ben meritato riposo.
Purtroppo, le due poverette non riuscirono a “passare” le proprie preziose conoscenze a nessuno: come tante, furono bruciate alla Vetra.

Ed eccoci arrivati nel buco più “nero” della città. Luogo che ha visto, nel corso dei secoli, scorrere il sangue dei condannati, gemere i lamenti di ogni forma di supplizio, morire la povera gente soffrendo, vecchi e bambini, uomini e donne, colpevoli della loro miseria. Posto che ha guardato accorrere maghi, negromanti e satanisti per evocare gli spiriti dell’inferno, disputandosi a suon di zecchini i pezzi dei cadaveri straziati dal boia. Prati che hanno posseduto l’ago di catalizzazione delle forze del male. Piazza in cui sono bruciate le immagini dei rei assenti. Piazza Vetra, piena di fantasmi, l’ultimo è quello della vecchia mala, ammazzata dalla mafia al servizio dei poteri dello Stato. Si chiamava Rosetta, e la sua canzone si canta ancora oggi nelle osterie milanesi.
Sicuramente Piazza Vetra era un territorio abitato dagli spiriti maligni fin dall’antichità. Se le forze del male non l’avessero eletta a propria dimora, comunque vi sarebbero state chiamate da orde di anime morte senza pace nelle sofferenze più atroci, senza mai aver conosciuto amore in vita.
Tanto tempo fa il piazzale era una specie di grande prato, attraversato da un canale che si chiamava Vetra, o Vepra. In realtà, quel fiumiciattolo era peggio di una fogna a cielo aperto: sulle sue rive i vetraschi (conciatori di pelli) risciacquavano con l’acqua e aggressive sostanze chimiche i cadaveri semiputrefatti degli animali, che dovevano trasformarsi in pellicce, borse e scarpe.
Era un lavoro rischiosissimo: le esalazioni, la sporcizia e la materia in via di decomposizione provocavano infezioni mortali. Dopo qualche mese, anche l’organismo più resistente esalava l’ultimo respiro, tra i miasmi asfissianti che impestavano l’intera zona. Nessuno che avesse potuto scegliere si sarebbe sobbarcato una simile professione.
Allora i conciatori si rivolgevano agli orfanotrofi: quando i trovatelli diventavano capaci di lavorare, pagavano qualcosa alla pia istituzione e li mettevano a raschiar pelli. Li facevano dormire nelle baracche tirate su sul greto di quel canale di scolo che era la Vetra. Li davano qualcosa da mangiare, e li facevano lavorare come schiavi fino a quando duravano. Quando si ammalavano, li lasciavano crepare senza ombra di medico: tanto quelle infezioni non erano curabili. Poi li sostituivano con arrivi freschi: il problema dell’infanzia abbandonata non è una prerogativa del XX secolo.
A centinaia e migliaia morivano nell’assoluta disperazione. Nessuno si fidava a scendere tra tanta morte: era come un lebbrosario, in cui la carne viva si disfaceva ancora attaccata alle ossa. Attorno alla Vetra abitavano soltanto i miserabili: le maledizioni a Dio e agli uomini e le invocazioni alle forze del male erano le uniche in grado di dare l’illusione di cambiare il corso di una vita senza fede né speranza, sprofondata in quanto di più malvagio l’uomo abbia potuto creare per sete di ricchezza e di potere.
Se i demoni prima non c’erano, gli esseri umani li hanno portati alla Vetra a forza.
Il palco era fatto di legno. Alto circa un metro. Enorme, copriva decine di metri quadrati. Sopra, l’intero armamentario che l’intelletto umano inventò nel corso di parecchi secoli di storia per arrecare morte e causare dolore e sofferenza. Tutt’intorno, un’inferriata per evitare che la gente si avvicinasse troppo.
Un’altra sezione della piazza era dedicata ai roghi. Vi si bruciavano persone vere ed immagini. Con una particolarità: la gente ammazzata in Piazza Vetra apparteneva alla bassa plebaglia. I signori venivano eliminati in Piazza Mercanti o al Verziere, con il privilegio di non dover subire la pubblica tortura: a meno che non fossero eretici confessi, come Maifreda, cugina di Matteo Visconti.
Sotto il patibolo satanisti, maghi, negromanti attendevano la fine del supplizio, per comprare qualche pezzo di carne morta. In certi casi, si disputavano i brandelli di un cadavere a suon di zecchini. Venivano mascherati, perché appartenevano alla Milano bene e non amavano farsi riconoscere; oppure, mandavano qualche servo a svolgere la commissione per loro. Ma era sempre meglio accertarsi della qualità della merce prima di farsela portare a casa.
Come finivano quei poveri resti? Polvere di ossa umane triturate, corde utilizzate come cappi per impiccare qualche povero diavolo, grasso di condannato (elemento estremamente difficile da reperire, vista la classe sociale a cui appartenevano i rei, che soffrivano di una grave forma di fame cronica), e amenità del genere erano richiestissime per preparare filtri, pomate, unguenti, bevande che servivano nelle evocazioni del Maligno.
Fra i bocconi più richiesti, le braccia. Possibilmente non rovinate, muscolose e maschili, giovani e fresche. Gli avambracci servivano a fabbricare le mani di gloria. Ovvero, imbalsamate, con procedimenti magici (naturalmente), dal gomito in su venivano messe in posizione eretta; il pugno chiuso serviva a reggere una candela nera. Quello che restava dell’arto si perdeva, imputredendo; o veniva utilizzato per altri composti di minor valore.
Questo era un arnese di grande valore nell’invocazione satanica: la candela accesa è il simbolo dell’individuazione, della fine della vita che si concentra in fuoco. La cera, lo stoppino, il fuoco e l’aria che si uniscono nella fiamma ardente, mobile e colorata sono una sintesi di ogni elemento del creato: nella luce e nel calore di una candela sono attive tutte le forze della natura.
Attraverso la mano di gloria, conoscendo le regole del corretto cerimoniale, che comunque stanno scritte in molti testi, reperibili in biblioteca ma anche sulle bancarelle, e, sopra ogni cosa, volendolo fermamente e desiderandolo di cuore, si può avere, secondo la tradizione, la possibilità di un approccio diretto con le entità infernali. In questo modo si può stringere un patto di vario grado, anche revocabile, con il demonio: come insegna il dottor Faust, buon’anima.
Dato che la Vetra fu sede di esecuzioni dal 1000 al 1814, singole e di massa, i commercianti di cadaveri fecero sempre buoni affari.

Altro posto da streghe, a Milano, era il Verziere, la parte posteriore del Rebecchino rispetto al Duomo, costruito dal Medioevo in poi dalla povera gente: architettura spontanea, si direbbe oggi; rifugio di miserabili che non fanno onore ad una capitale europea.
Non c’è niente di più affascinante dei vicoli, calli, passaggi, ponti, porticati, sbalzi, slarghi di certi quartieri medioevali, che ancora si conservano in molte città europee. Quelle ombre riflesso di costruzioni irregolari, in cui manca completamente (per fortuna!) il senso della simmetria, sono state messe insieme dall’uomo poco a poco, un pezzo qui e un pezzo là, quando c’era bisogno di un locale in più, di una finestra, di un cesso che scaricasse dritto nel canale… Le esigenze della moda, dello stile, il concetto di rappresentazione sarebbero venute soltanto molto più tardi. Il risultato complessivo è qualcosa che caratterizza la vecchia Europa dal profondo della sua storia, che tramanda personaggi leggendari come Giulietta e Romeo, Lady Macbeth, Chichibio ed il pittoresco, vivacissimo popolo del Decameron.
E la Milano medioevale, con le sue stradine buie piene di fantasmi e di amori contrastati, dov’è andata a finire? Inghiottita dalle manie di rinnovamento, di igiene e pulizia, e dalla fretta di fare del capoluogo lombardo una capitale europea. Anche se la nostra città non fu mai tanto al centro dell’antico continente quanto in quel vituperato periodo, di cui non è stato lasciato se non qualche frammento.
Il primo colpo a quella che, se si fosse conservata, sarebbe probabilmente stata una delle zone più suggestive della città, la dà il conte Carlo di Firmian, ministro plenipotenziario di Maria Teresa d’Austria, che decide di trasferire il mercato ortofrutticolo dal Verziere alla piazza di Santo Stefano.
L’antichissimo quartiere medioevale comincia ad essere sventrato per farci una fontana: la prima, e l’unica per almeno un secolo e mezzo. L’incarico viene assegnato all’architetto più prestigioso della nostra città: quel Piermarini che disegna anche la Scala. Nel 1783 viene inaugurata, e la piazza cambia nome: da Verzario in Fontana.
Poco per volta, i vecchi tuguri vengono abbattuti, uno per uno; cominciano a sorgere palazzi signorili, come quello di Gian Giacomo Trivulzio, in via della Signora. Ma il carattere popolare del quartiere resiste, tanto che Carlo Porta, appassionato cantore delle genti di Meneghino, incontra qui la sua Ninetta, pescivendola “fresca, giovane e grassa” che l’amore di uno sfruttatore ha portato alla prostituzione e poi al degrado fisico e morale.
Gli ultimi proiettili sono venuti dall’alto: quelli dei bombardamenti alleati. Dell’antico quartiere non è rimasto più niente. Si racconta che, dopo lo sfratto (forzato) degli ultimi vecchi, che non se ne volevano andare, quelle case, ormai pericolanti, fossero state fatte saltare con la dinamite. Erano ancora popolate da branchi di gatti randagi, che non se la sentirono di abbandonarle…
Al vicino Laghetto arrivavano i sassoni ad usum fabricæ, che sarebbero stati incisi e scolpiti fino a farli diventare trini di pietra, ma non solo: oltre ai 550mila blocchi di marmo, arrivò a Milano, fino alla metà del secolo scorso, una massa di merci che ne fece il porto interno più importante d’Europa.
Poi, anche il Laghetto iniziò a puzzare: da vicino al Duomo dovevano sparire i pezzenti, non era più tollerabile mantenere una fogna a cielo aperto a due passi dalla cattedrale. E così, nel 1857 ci misero una pietra sopra, ovvero lo coprirono.
Dopo due millenni di trasporti acquatici comincia l’inversione di tendenza. Fino al dopoguerra, in ogni modo, le chiatte continuano a circolare sui canali. Ma dopo il Laghetto, uno per uno anche tutti i Navigli dovettero, loro malgrado, subire la stessa fine. Ed essere interrati, coperti di asfalto, soffocati in budelli da cui riescono ad uscire, qualche volta, i loro fantasmi. Trasformati in nebbia, fumi ed umidità.
Il ricordo, però, è rimasto; e con lui, gli spettri di un passato che sembra cancellato per sempre ma che comunque sopravvive finché c’è qualcuno a raccontarlo.
Dai tempi dei tempi dei tempi, tutto attorno al duomo, e prima ancora tutto attorno alle due chiese che lo generarono, si stendeva un rione fatto di catapecchie di legno, di malta e paglia, di sassi e mattoni, quasi senza finestre: rifugio notturno della plebe meneghina che, durante il giorno, preferiva di gran lunga vivere in strada che nelle sporche stanze maleodoranti di quelle che solo con molto coraggio si sarebbero potute definire case.
Dietro alla cattedrale, o meglio dietro al suo cantiere, si vendeva la frutta e la verdura: i cibi più economici, che mangiavano i più poveri. Un mercato da miserabili, ma coloratissimo ed animato, pieno di voci e di odori, di donne in abiti men che succinti che adescavano clienti di basso rango con frasi ed occhiate non proprio raffinate. Un ambiente in cui si cresceva in fretta, sopravvivevano i più forti ed i più furbi, e si moriva presto. Il verziere era un posto infrequentabile per le signorine di buona famiglia, che si sarebbero sporcate le scarpette nel fango. Ma anche i signori preferivano non attraversarlo, o, se propria dovevano passarci, farsi seguire dai guardiaspalle.
Chiaramente, in quegli anfratti ci abitavano le streghe. E dove mai avrebbero potuto stare? Erano le donne più povere della comunità, quelle che non avevano un uomo che le proteggesse, quelle che avevano dovuto imparare, per amore o per forza, a cavarsela da sole.
Erano anche quelle che, sfruttando una propria vocazione di fondo, riuscivano ad interpretare i magici segni che la natura ci manda, e cioè a leggere il futuro, guarire gli ammalati, far nascere i bambini, evitare nascite poco desiderate, preparare l’ingresso degli agonizzanti nel regno dei morti, cacciare gli spiriti malvagi, far tornare l’amante, preparare il veleno per il marito che ormai ne ha fatte troppe e non se ne può più…
Erano quelle che iniziavano le rivolte: ancora oggi, nei paesi del Terzo Mondo, le ribellioni iniziano al mercato, punto di riunione e di aggregazione, in cui si toccano con mano i prezzi che aumentano. In epoca pre-industriale, i tumulti cominciavano con l’assalto ai forni, o l’attacco agli esattori e ai gabellieri, che si aggiravano tra le bancarelle per riscuotere le tasse. Individui odiati in modo particolare dai poveracci, che venivano linciati e, letteralmente, fatti a pezzi. Spesso, chi lanciava il primo sasso era proprio una strega.
Di notte, le fattucchiere si mettevano a cavalcioni di una scopa e andavano al sabba, per incontrare Satana, ballare, cantare e far baldoria. Quella che guidava la congrega saliva sui tetti e si metteva ad urlare, per chiamare le altre alla riunione. Quando erano tutte appollaiate tra le tegole, dava il segnale di partenza: e via, alla festa!, fino all’alba in compagnia dell’inferno. Nella nostra città quelle antiche maliarde si trovavano in Ca’ di Tencitt: che esiste ancora, e sta in via Laghetto. Tenc, in milanese, significa sporco, lercio: Ca’ di Tencitt cioè casa degli sporchi. Ma chi erano questi luridoni?
Nel 1438 la fabbrica del Duomo procedeva a passo di lumaca. Per accelerare l’edificazione della cattedrale l’amministrazione pubblica decise di aprire un piccolo lago alimentato dalle acque della fossa interna dei Navigli. In questo modo gli enormi massi di marmo sarebbero stati scaricati più vicino alle impalcature.
Il luogo era famoso perché puzzolente, oltre che sporco: “lago” era un eufemismo per indicare uno stagno praticamente senza sbocchi, una pozza in cui finivano tutti gli scarichi delle case dei dintorni, dove venivano lavati carbone e marmo, e gettata ogni tipo di immondizia.
In via Laghetto abitavano i facchini addetti al carico e scarico delle merci, tra cui anche il carbone, che li tingeva di nero. La gente li chiamava i tencitt del Laghett. Non è un caso che la maga in capo vivesse in casa loro: fra gli operai, erano i più disgraziati, quelli che venivano da fuori, con il viso e le mani che, ormai, conservavano ben poco di umano: assomigliavano molto alle anime dannate dell’inferno, la pelle abbrustolita e cotta dalle fiamme dell’altro mondo, semper affamati, parlavano una specie di gergo comprensibile quasi soltanto da gente della stessa razza.
Le loro donne non potevano che svolgere una professione: quella della strega. E chi chiamavano a convegno? Le “cattive femine” del vicino Verziere, accomunate da un identico destino di oppressione e di fame, e dalla volontà di sfuggire ad una vita poco allegra con le feste, i “viaggi” provocati dagli allucinogeni, le evocazioni del demonio intentate più per farsi beffa di una Chiesa che quando parlava bene di loro li dava delle puttane che per reale convinzione e fede satanica.
Per secoli sono state accettate e benvolute all’interno del gruppo sociale a cui appartenevano. Svolgevano una funzione precisa, quella di tramite tra gli spiriti invisibili e la gente comune. Avevano la capacità di captare e di interpretare ritmi e linguaggi delle forze sottili. Spesso e volentieri dame e donzelle di sangue blu si facevano accompagnare da loro, mascherate, quando le tenebre avvolgevano quelle laide casupole, per rivolgerli domande e richieste che mai avrebbero avuto il coraggio di fare al padre confessore o alla propria guida spirituale.
In cambio, quando non servivano più o quando le richieste non potevano essere soddisfatte e le previsioni risultavano infauste, o più semplicemente quando le maghe si rifiutavano di obbedire a “certi” ordini, venivano denunciate come fattucchiere ed adoratrici di Belzebù, dedite alle orge notturne e al sacrificio degli infanti, alle messe nere e allo spargimento di pestilenze di vario genere.
E bruciate vive sulla pubblica piazza.
Forse, è proprio per scongiurare quegli assembramenti (sediziosi) notturni che, nel 1580, in piena Controriforma bigotta e beghina, con l’Inquisizione che infura e miete vittime anche fra le classi più alte, la confraternita della Santa Croce progetta una colonna in pietra di Baveno, con tanto di Cristo Redentore in cima.
Tali cippi sono esattamente il contrario dei dolmen e dei menhir di celtica memoria, all’ombra dei quali per millenni si sono consumati i sabba. Servivano per scacciare le antiche entità, quei maledetti spiriti degli dei pagani che non ne volevano sapere di abbandonare questo mondo, e ritornavano a tormentare gli uomini, e a sedurre le donne, sotto forma di diavoli di specie differenziate. Venivano piazzati di preferenza negli incroci, perché considerati luoghi a rischio, ultra malefici: le persone ci si incontravano, parlavano e poi, chissà mai, potevano decidere qualcosa di contrario ai santi precetti che la dottrina cristiana insegna.
Come farsi un giro al sabba, per esempio.
Comunque, il sacro pilastro, al Verziere, ci mette quasi un secolo ad essere eretto: simbolo fallico contro cui si scagliano le maledizioni e gli influssi nefasti scatenati dalle streghe del posto, che cercavano di cacciare chi tentava di redimerle a forza (di roghi). Le autorità civili litigano con quelle religiose; si demolisce la prima metà della colonna, e si sbattono in galera i muratori innocenti ed inconsapevoli. Rimessa in piedi nel 1611, precipita un paio di volte durante i lavori. Fu inaugurata nel 1673: i maghi cristiani hanno sconfitto i poveri diavoli e le fattucchiere.

Racconta il Registro dei nobili scolari di San Giovanni Decollato:
“1617. Addì 4 marzo.
Giustizia fatta alla Vetra: fu abbrugiata una Cattarina de Medici, presunta strega, la quale aveva malefiziato il Senatore Melzi et fu fatta una Baltresca sopra la casotta: fu strangolata su la detta Baltresca all’atto che ogn’uno poteva vedere et prima fu menata sopra un carro et tenagliata… questa fu la prima volta che si facesse Baltresca…”
.
Proprio vicino la chiesa dell’angioletto della pioggia abitavano i Melzi. I quali, tra i tanti componenti illustri della famiglia, annoverano anche una pecora nera: Alvisio. Senatore, conte palatino, vicario di provvisione, luogotenente regio e (c’era bisogno di dubitarlo?) consulente dell’Inquisizione, passò alla storia per aver fatto “abbruciare una strega”. Che era poi la sua donna di servizio, colpevole di essersi sottratta alle proposte indecenti di un suo carissimo amico.
La fosca vicenda inizia con la malattia dell’Alvisio. Il quale proprio non riesce a capire l’origine di quei suoi malesseri; e i medici chiamati a consulta si mostrano ancora più ignoranti del paziente. A quei tempi, in certi casi, la diagnosi poteva essere una sola: colpito da stregoneria.
Il sospetto di essere stato maleficato viene insinuato nel suo cervello sconvolto da un tal capitano Vaccallo. Il quale gli fa capire che, ad averlo stregato, poteva essere stata la sua donna di servizio, Caterina Medici, di Broni. La poveretta, che aveva quarantaquattro anni e quindi, per l’epoca, era sicuramente una vecchia zitella, aveva offeso il vendicativo capitano in maniera inqualificabile. Prima di stare dai Melzi, infatti, aveva servito a casa sua e lui aveva provato a farle la corte, ma lei non ne aveva mai voluto sapere. Poi, addirittura, si era trasferita a lavorare da altri; oppure, era stata cacciata per mancanza di educazione. Questo le cronache non ce l’hanno tramandato. Sotto le abili mani del boia la poveraccia in un primo momento nega ogni addebito; poi, come al solito, confessa il confessabile e l’inconfessabile: certo che aveva firmato un patto con Lucifero; certo che era andata al sabba, volando su una scopa, e anzi ci si era divertita un mondo, e ci aveva conosciuto un sacco di bella gente; aveva frequentato diavoli e demoni d’ogni tipo, razza, colore e umore; aveva assassinato; aveva sparso malefici e lanciato il malocchio; rovinato famiglie, succhiato il sangue di infanti, e chi più ne ha più ne metta. Era, insomma, una fattucchiera esperta. L’ultima prodezza era stata la malattia del padrone.
Data l’alta posizione sociale della supposta vittima, fu rosolata con speciale solennità: per la prima volta nella storia dell’Inquisizione ambrosiana fu innalzato un palco (baltresca) in modo che il popolo potesse ammirarne le contorsioni tra le fiamme; ma, dato che si trattava di strega pentita, fu strangolata prima di essere bruciata. Non riuscì a risparmiarsi, però, la tortura in pubblico: su un carro, le sue carni furono straziate dalle tenaglie.
Teatro del supplizio, quella piazza Vetra tristemente nota per i morti ammazzati.

Carrobbio, cioè crocicchio: incrocio dei cammini e centro del mondo; luogo di sosta per prendere una decisione, da cui non si può più tornare indietro; punto d’incontro di spiriti buoni e cattivi, di streghe e di maghi che vi si abbandonano a danze sfrenate e ad invocazioni di esseri che vengono dall’aldilà: l’importanza magica e simbolica dei crocevia è attestata dalla notte dei tempi, e tutte le civiltà la riconoscono. Tanto è vero che anche nel più famoso incrocio della città si sono potute trovare testimonianze antichissime di rituali misteriosi, della presenza di streghe e di maghi, incantati ed incantatori.
“…una delle parti più squallide e desolate…” di Milano: così Manzoni ricorda il Carrobbio, ancora nel 1630. Zona popolare lo era stata da sempre: attorno alle mura abitavano i più poveri, gli “irregolari”, quelli senza fissa dimora; ci bivaccavano i soldati; ci si aggiravano le prostitute. I muraglioni erano perforati e scavati dalle mani dei poveri diavoli che cercavano un riparo, e che se lo costruivano come potevano, in quella terra di nessuno, nello spessore delle pareti di mattoni, sperando che nessuno li cacciasse via, almeno da quei buchi.
Di notte, si accendevano fuochi ambigui ai bordi di strade lastricate ma comunque fangose, sporche, puzzolenti. Ladri, malfattori, truffatori cercavano polli da spennare e borse da tagliare. Sicuramente c’era chi leggeva la mano, quello che giocava ai dadi ed accettava puntate con il compare di dietro che lo aiutava a barare, quell’altro che si offriva di fare da guida in una città tanto pericolosa e difficile… e via dicendo.
Al tempo dei Romani, Milano era circondata da due giri di mura, con almeno sette porte. Una era Porta Ticinensis, da cui usciva la strada che portava a Pavia (Ticinum). C’erano due torri di guardia, ottagonali all’esterno, rotonde all’interno, costruite in maniera talmente solida che una è arrivata fino a noi. Faceva parte di un complesso sistema difensivo di cui è rimasta solo qualche traccia.
Già nel Medioevo perse la sua funzione protettiva, e l’antica fortezza si trasformò in lazzaretto per le malattie infettive. La torre in lebbrosario. La domenica delle Palme il vescovo compiva un solenne rito di purificazione: lavava, o meglio, fingeva di lavare, la porta della Malsana prima di celebrare la messa alta in San Lorenzo.
Nella piazza si trovava anche una famosissima osteria, soprannominata dei Tre Scanni. I sedili erano riservati ai tre prelati d’alto bordo che, il giorno della Befana, dovevano portare la pesantissima urna che conteneva le reliquie dei Re Magi, prima ancora che il Barbarossa se la portasse a Colonia. Così, arrivati stanchi sfiniti dal Duomo, i tre monsignori si fermavano nella celebre bettola con tutto il seguito per riprendere fiato, bagnarsi la gola con qualche bicchiere di buon vino, scambiare quattro chiacchiere e proseguire il cammino.
La trattoria esisteva ancora nel secolo scorso. Nell’agosto del 1943 il Carrobbio fu sconvolto dai bombardamenti. Di medioevale, rimane sempre la Malsana.
Al Carrobbio è legata un’intricatissima leggenda, in cui si mescolano le vicende di un negromante lascivo, dei dogi di Venezia e di una giovane coppia di sposi, che abitavano al Carrobbio: lui faceva il pollaiolo, lei la fruttivendola.
La storia inizia a Venezia: due nobili, Giacomo Foscari, figlio nientepopodimeno che del doge, e Giulia Zeno, si amano, e sono fidanzati, con il consenso dei genitori. Ma le lotte di potere non lasciano tregua: così i nemici del doge accusano Giacomo di peculato (che novità!) davanti al Consiglio dei Dieci. Il povero padre, pur sapendolo innocente, spinge il ragazzo a fuggire, per evitargli la tortura. Giacomo viene condannato, il futuro suocero non lo reputa più un buon partito e promette la figlia al nobile Almor Donati.
Ma un altro ha messo gli occhi sulla bella Giulia: una notte uccide Almor a pugnalate. Sul luogo del delitto viene sorpreso un servo di Giacomo Foscari, e tutta Venezia si convince che il figlio del doge abbia eliminato il rivale per gelosia.
In realtà, l’assassinio si chiama Sabino, ed è un mago “nero”, un negromante, tristemente famoso per le sue orge, le sue rapine, le sue truffe, le atrocità e gli atti vergognosi che compie, utilizzando le arti magiche, a danno delle popolazioni della Romagna. Quando giudica di averne fatte troppe, pensa bene di cambiar aria, e di trasferirsi a Milano. Qui, durante una passeggiata, vede la Ghita che vende le sue verdure, e che ha la sfortuna di assomigliare a Giulia Zeno come una goccia d’acqua. In un momento, il mago decide di portarsela via: e, senza aspettare neanche un minuto, comincia ad evocare gli spiriti più strani, facendole apparire davanti angeli meravigliosi e demoni orripilanti, fino a quando la Ghita, terrorizzata, stringendosi al petto il figlioletto, cade svenuta. Mentre la rapisce, gli emissari dello stregone cercano di offrire da bere a Battista, il marito di Ghita; ma lui non si lascia ingannare, corre a casa e si accorge che la moglie ed il figlio sono spariti.
Al suo risveglio, la giovane si trova in un palazzo stupendo, pieno di mobili, oggetti e tendaggi lussuosi, attorniata da splendide ragazze semisvestite che corrono ad ogni suo minimo desiderio: ogni giorno, poi, deve difendersi dalle avances del mago, che tenta di sedurla un po’ con le buone un po’ con le cattive, promettendole i più orribili tormenti se gli si nega, e tuttavia mantenendola tra vesti di seta e cibi sopraffini, che una popolana come lei non aveva mai neanche immaginato che esistessero…
Nel frattempo, uno sgherro del potente Sabino convince Battista che a rapire sua moglie è stato Pier Donati (fratello dell’ucciso Almor), che se la starebbe portando a Corfù assieme ad altre ragazze, per inserirla nell’harem e darsi alla pazza gioia.
Così Battista riesce a farsi assumere a bordo della nave dei Donati. Ma una volta arrivati a Corfù, il servo del negromante viene ferito a morte in una rissa, e gli rivela la verità. Allora Battista va da Pier Donati, e gli racconta la sua storia: il nobiluomo ci mette poco ad accorgersi che l’assassinio del fratello ed il rapitore della Ghita sono la stessa persona, e, veloce come il vento, fa vela verso Venezia, denuncia il mago e mette le cose a posto.
Intanto Ghita, con la sua virtù, è riuscita ad intenerire il mago, che chiede l’assoluzione alla Chiesa, consegna la donna ai frati del convento più vicino e regala ogni sua ricchezza ai servi. I quali, per vendicarsi di quanto avevano subito, entrano una bella notte nel favoloso palazzo, e lo pugnalano a morte.
Quando Pier Donati e Battista riescono a rivedere Milano, la tragedia ormai si è compiuta e risolta: Almor vendicato, lo stregone e le sue forze del male e dell’inferno eliminato, lo sventurato marito riceve dall’aristocratico una bella somma di denaro, in modo da poter ricominciare una nuova vita, e dimenticare la brutta avventura, insieme alla moglie ed al legittimo erede.

“Quale che sia il motivo per cui le streghe temono il canto del gallo, non so. So soltanto questo, da Plinio ad Eliano: che il canto del gallo incute timore al leone e alla scolopendra. Sul fatto che i galli non sono avvezzati alla notte si ricordano molte cose straordinarie: Volterrano ad esempio ricorda che quando nacque il figlio di Matteo grande visconte di Milano, i galli cantarono tutta la notte, e per questo gli fu dato il nome di Galeazzo, e fu pieno di eloquenza e di virtù militari, come dice Giovio”: questo uno stralcio di best-seller seicentesco, tolto dal capitolo XII, intitolato ““Se le streghe si trasferiscono veramente da un luogo all’altro, durante le riunioni notturne”.
Si tratta del Compendio Maleficarum, stampato a Milano nel 1608, scritto da Francesco Maria Guaccio, frate dell’ordine di Sant’Ambrogio ad Nemus e famosissimo cacciatore di streghe, giudice del tribunale dell’Inquisizione e carnefice di talmente tante donne che si è perso il conto. Milano quindi, oltre che a sacerdotesse di Diana, ad affascinanti maliarde, a maghi pentiti, diede i natali anche ad uno dei più celebri, feroci e colti guardiani della fede.
Di lui si hanno ben poche notizie, oltre alla fama (che purtroppo si è conservata) di inquisitore tremendo. Non conosciamo né la sua data di nascita né quella di morte; purtroppo è vissuto abbastanza per poter raccogliere in uno dei più celebri libri del tempo, testo base dell’Inquisizione, su precisa richiesta inoltrata dalla Curia ambrosiana.
Nato a Milano alla fine del XVI secolo, fu considerato un luminare in materia di streghe e di diavoli. Compì numerosi viaggi di formazione, aggiornamento e perfezionamento in ogni angolo d’Europa; fu convocato all’estero diverse volte, come consulente consigliere ed esperto in materia. Fu chiamato perfino nel ducato di Kleve, in Germania nord-occidentale, per il processo contro il duca Giovanni Guglielmo. Morì, forse a Milano, intorno al 1640.
Il volume maledetto è diviso in tre libri: la parte più estesa (e chi poteva dubitarne?!) riguarda le modalità dello stregonesco volo notturno e dello svolgimento del sabba. Conosce e cita tutti gli autori, italiani e stranieri, che hanno scritto sullo stesso argomento; e si distingue per il suo fanatismo. Il suo libro è un compendio nel senso moderno del termine, un manuale il cui scopo è quello di offrire un’esposizione semplice e chiara di una materia che, all’inizio del Seicento, aveva già assunto le caratteristiche di una struttura labirintica di difficile interpretazione, su cui ci si scontrava nelle università, nei conventi e nei tribunali. Semplicemente, riduce e spiega, citando qualcosa come 322 autorità in materia, con l’aiuto di esemplificazioni tratte dalle elaborazioni precedenti, in modo da offrire uno strumento di lavoro semplice da usare, chiaro, che non lascia dubbi di sorta.
Lui non si pone neppure il problema di indagare, approfondire, rielaborare questioni di natura teorica: le streghe esistono, sono il male peggiore dell’umanità e devono essere eliminate perché servono il demonio. Per far questo ogni mezzo è buono, e la tortura non è  mai sufficiente.

[Michela Zucca, sta in: Streghe, diavoli e sibilleAtti del Convegno – Como, 18-19 maggio 2001 – Comune di Como, Cultura e Musei, Biblioteca, NODOlibri].

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